“Il teatro non serve a niente. O meglio, serve quando non serve”.
Paolo Billi, direttore artistico del Teatro del Pratello, continua a ripeterlo da vent’anni.
Dal 1998 cura il progetto di Teatro Carcere, prima con i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile, poi anche con quelli in carico ai servizi della Giustizia Minorile. Fu anche il primo, negli anni ’70, ad aver fatto partire a Bologna i primi esperimenti di teatro comunità in zone marginali, portando il teatro fuori dal teatro.
Ha le mani grandi, quelle della concretezza. Mentre parla le intreccia continuamente, le chiude, le stringe. Le stesse con cui contiene quei ragazzi, li blocca o li abbraccia. “Ho un rapporto molto corporeo con loro, se c’è bisogno di contenerli lo faccio. E le cose non le spiego, le faccio fare. E’ solo così che si capiscono”.
Paolo serve quando non serve. Gli chiedo se quella frase è una provocazione. Sbarra gli occhi. “No, non lo è. È fondamentale fare qualcosa per il piacere di farla e non perché serve, oggi in cui tutto va nella direzione dell’utile. La traduzione è la necessità di sperimentare la gratuità, lo dico in termini laici”.
Laico è il secondo termine che usa più spesso. E il suo ultimo progetto, non a caso, si chiama “Laici Teatri”. Si smontano i pregiudizi attraverso un percorso di laboratori, di produzioni teatrali e artistiche dentro e fuori dal carcere, tra luoghi di reclusione e i luoghi della cultura cittadina, tra chi vive situazioni di marginalità e altri cittadini, creando un ponte.
Perché Laici Teatri?
“La mia laicità è quella di non diventare funzionale al luogo in cui ho deciso di operare. Il mio tentativo è sempre quello di creare sospensione, imbarazzo. Dico che il mio lavoro non serve a niente e serve quando non serve. È destabilizzante per un’Istituzione, che mi chiama perché viene reputato utile. Nello stesso tempo entro nei margini sociali di un’istituzione chiusa per creare ponti con l’esterno. Vado a togliere terra sotto certi fondamenti, mi piace essere sabbia dentro i meccanismi. Non olio, quello sarebbe utile.
Il progetto è intergenerazionale. Quando inserisco i ragazzacci, i senior, gli anziani dei centri sociali è per costruire le condizioni in cui riconosca l’altro capendo che non è quello che pensava. Il senso del progetto va in questa direzione. Laico viene declinato in diversi modi ma permea tutto quanto, abbattendo i pregiudizi”
Pregiudizi. Quali sono i più duri a morire?
“Quelli che non reputi pregiudizi, quelli legati al senso comune delle cose. Chi entra in carcere e guarda lo spettacolo dice: bravini, bellini, poverini. E sono poi gli stessi che incrociando i ragazzi in via del Pratello pensano: spacciatori marocchini di merda. Basta una soglia per cambiare la percezione. Il lavorare su entrambe le direzioni ha segnato da sempre il mio lavoro, partendo dall’esperienza del pregiudizio per incrinarlo. Sai qual è la forma di pregiudizio che si pratica più spesso e non se ne è consapevoli? Quella che metti in atto quando sei innamorato. E’ la consapevolezza che ti permette di riconoscere di star agendo secondo pregiudizio e di dire: fermati!”
Spiegaci il progetto
“E’ un progetto che consolida e sviluppa quanto fatto fino ad ora, introducendo una nuova progettualità specifica, e si sviluppa in quattro direttrici: Teatro e Carcere, Teatro e Giustizia minorile, Teatro Civile e Teatro Comunità.
Il Teatro e Carcere è un laboratorio di teatro e scrittura presso la Sezione femminile della Dozza, che porterà alla produzione di uno spettacolo. Teatro e Giustizia minorile è rivolto a minori in carico ai servizi della Giustizia Minorile per l’attivazione di laboratori di teatro, scrittura e scenografia e la realizzazione di spettacoli. Il progetto di Teatro Civile si chiama Voci e si avvale della collaborazione con diversi istituti culturali. Si parte da date anniversarie, per mettere al centro i temi legati alla memoria e la relazione tra il contemporaneo ed eventi storici attraverso laboratori di storia, musica, arte e teatro. Il progetto di Teatro Comunità è il progetto nuovo. Si chiama “Visioni di lavoro”: un confronto sul tema del lavoro attraverso laboratori di fotografia, scrittura, video e performance”.
Entriamo dentro Visioni di lavoro. Come è arrivata l’idea e come si sviluppa?
“La proposta è arrivata da Gian Guido Balandi, docente a Ferrara e ius lavorista ora in pensione, è nel consiglio direttivo dell’associazione il Mulino. Il progetto coinvolge sei realtà: scuola media, istituto superiore professionale, istituto di formazione professionale, pensionati, delegati sindacali e detenuti operai della Dozza. Insieme si lavora con laboratori di scrittura fotografia e video per produrre visioni di lavoro diverse. Non argomentazioni o pensieri, ma visioni. Poi tutto il materiale verrà preso in mano da un gruppo di intellettuali che fanno capo al Mulino e confluirà in una installazione attraverso cui si costruirà un percorso tra immagini, video, scrittura e considerazioni di lettura degli studiosi. Infine, metterò tutto questo in gioco nel terzo spettacolo della trilogia Padri figli. Non ha ancora un nome ma il titolo provvisorio è “Mani di figli padri”. In cui le mani sono a simbolo del lavoro”.
Vent’anni di lavoro. Un’immagine che ti passa davanti quando ci pensi e che riassume visivamente quello che hai fatto.
“Ho costruito tante immagini nei miei spettacoli, metafore della costruzione di ponti. Nel mio terzo spettacolo c’era un ponte diroccato, senza volta. La scenografia occupava la platea e arrivava sul palcoscenico. Ero io che costruivo ponti. Un’altra immagine invece è quella dell’istituto penale minorile. Era un ex convento, poi iniziarono i lavori di restauro. Nella mente ho l’immagine di un labirinto – formicaio in cui convivono figure diverse, tutte chiuse dentro: dai rinchiusi a chi è preposto alla sorveglianza e al trattamento educativo. Tutti chiusi dentro”.
Qual è il momento più difficile del tuo lavoro?
“Sempre il primo contatto, in cui ti giochi tutto. Sia gli adolescenti che gli adulti devono pensare che io sia altro rispetto all’istituzione. Non sono un educatore, non sono un maestro, ma una figura preposta a lavorare in un determinato contesto. Quando capiscono questo, si iniziano a creare le condizioni per costruire un rapporto basato sulla fiducia, che mi permette di fare cose che altre figure non riescono a fare. Frasi che mi sono sentito dire spesso sono state: ‘Chi sei tu per venire a guardarmi dentro?’ o ‘Tu guadagni grazie alla mia sfiga’. Queste sono le prime difese”.
In che modo riesci a schermarti, a separare te dalla tua professione?
“Mi lascio molto coinvolgere ma sono al contempo molto rigido, altrimenti verrei risucchiato. Bisogna sempre essere consapevoli di ciò che si è. Con loro ho un rapporto molto corporeo, fisico, privilegio la presa quando c’è bisogno, ma anche l’abbraccio”
Continui a dire che servi quando non servi. Quando hai pensato: “sono servito”?
“Ci sono diversi ragazzi che hanno fatto due o tre anni di teatro e hanno continuato, anche se li ho sempre disincentivati perché il teatro non dà da mangiare. Alcuni hanno avuto esiti sorprendenti. Uno di questi ‘ragazzacci’ era in carico ai servizi sia in galera che in comunità. Era un borderline pauroso. Poi ha dato la maturità, si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza e si è laureato. Non gli davi niente e adesso esercita.
Probabilmente il teatro ha permesso a lui, come ad altri, di guardarsi, di misurarsi, di avere un rapporto con la propria dimensione emotiva più tranquilla e semplice, di riconoscere certe cose, di non avere paura. Il mio lavoro permette di scoprire di saper fare qualcosa che non si pensava di saper fare. Dà fiducia e permette di riconoscere nell’altro non un antagonista ma qualcuno con cui instaurare un dialogo positivo”
Hai lavorato e lavorerai anche con Laici Teatri nella sezione femminile del carcere della Dozza. Come si approcciano al teatro, rispetto agli uomini? Ci sono delle differenze?
“La differenza la capacità di buttarsi, quella delle donne non ha eguali. Non hanno paura di buttarcisi dentro”
Cosa ti è rimasto dentro?
“Nella sezione femminile lavoro da quattro anni, hanno pene molto lunghe. Se ti leggo le lettere che ci scrivono sono paurosamente impegnative, fanno stare male. Riconoscono il lavoro ma ti caricano di aspettative. ‘Siete la mia famiglia, in un posto in cui non c’è famiglia’”
Hai messo in campo il primo esperimento di teatro comunità. Prima al Mazzini poi al Pilastro, uno dei quartieri allora più difficile. Se guardi indietro cosa ha segnato tutto il tuo percorso?
“Ho sempre scelto le zone marginali e di non lavorare dentro i teatri o nei luoghi culturali deputati. Quando arrivai all’Istituto Penale Minorile non avevo mai lavorato con adolescenti ne in strutture chiuse. Sono entrato pensando sempre che era un luogo al limite, con la premessa che io entro non per chiudermi dentro, ma per fare entrare in carcere l’esterno. In quegli anni c’era una grande attenzione della città verso il carcere, il teatro faticosamente si apriva ma le pulsioni politiche e sociali erano molto forti e si è aperto. Ora c’è un’inversione di rotta. Al di là di quello che sembra le strutture carcerarie si stanno fortemente richiudendo”
Continuiamo a parlare. Poi abbassa lo sguardo verso l’orologio, con una mano tocca il gilet che indossa e sfiora una tasca. Dentro forse ci tiene i suoi attrezzi del mestiere, tra cui quelli dell’immaginazione. Sorride, deve andare. Paolo serve quando non serve.
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