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Così sarà! La città che vogliamo

“Dove sostano gli inutili”. Intervista a Cartocci Sonori e Kepler 452

Ti sei mai sentito inutile? C’è un luogo inutile in città? Ma soprattutto, dove sostano gli inutili?

Sono solo alcune delle domande che la compagnia teatrale Cartocci Sonori, nata nell’estate 2020 in piena pandemia, sta facendo agli abitanti del quartiere San Donato in un periodo storico di attesa e di paralisi che ha innescato una grande sensazione collettiva: quella dell’inutilità

Il progetto di teatro partecipato si chiama “Dove sostano gli inutili” e vuole celebrare l’inutilità in un momento in cui siamo chiamati a scartare ciò che non è produttivo, con l’obiettivo di innescare qualcosa di utile: farci delle domande.

Attraverso un serie di interviste Cartocci Sonori sta indagando questo concetto inteso anche come invisibile, dimenticato, messo da parte, coinvolgendo in modo particolare San Donato, per culminare in una grande parata per le vie del quartiere.

È una delle sei idee selezionate attraverso il Concorso di idee di Così Sarà, una call pubblica rivolta a ragazze e ragazzi tra gli 11 e i 25 anni a cui sono state chieste delle idee creative per immaginare la città del futuro.

Incontro su Meet Diana Dardi e Giacomo Tamburini della compagnia teatrale Cartocci Sonori, che insieme a  Pouria Jashn Tirgan hanno ideato il progetto. Mi raccontano che l’idea è nata proprio dalla situazione che stiamo vivendo. “Sono mesi difficili anche per il nostro settore, quello del teatro, e ci siamo domandati se questa sensazione di inutilità non fosse in realtà un’emozione comune”.

Il progetto è sostenuto, come le altre idee selezionate, da un budget di 2.500 € e da una delle sei realtà teatrali che fanno parte di Così Sarà. Ad accompagnarli e affiancarli è Kepler 452, che sarà il loro tutor e porterà i ragazzi a trasformare l’idea in realtà.

Accanto a Diana e Giacomo, su Meet, c’è anche Nicola Borghesi di Kepler 452. “Ci è piaciuto perché è un progetto che fa proprio l’operazione che deve fare l’arte: fare domande, non trovare soluzioni”.

Foto di Margherita Caprilli per Fondazione Innovazione Urbana

Ci raccontate l’idea?

Diana: “L’idea è nata dalla situazione che stiamo vivendo. Sono mesi difficili anche per il nostro settore, quello del teatro. C’è una forte sensazione di paralisi, di attesa, di inutilità, di impossibilità ad organizzarsi e di sentirsi parte di un tutto, che in questo momento per motivi che sono più grandi di noi è rallentato o arrestato. Ci siamo domandati se questa fosse un’emozione comune, abbiamo sentito il desiderio di confrontarci e di capire se fosse possibile costruire qualcosa partendo da questa sensazione di inutilità”.

Chi sono gli inutili?

Giacomo: “Il titolo del nostro progetto, affianca gli inutili al verbo sostare. L’inutile è colui che aspetta e che non si sente utile a qualcosa. Gli inutili sono accomunati quindi da questa attesa e stanno diventando un bacino ideale per sondare i confini tra utile e inutile, un confine che si modifica attraverso le parole degli intervistati. Si dice sempre utile a qualcosa e mai inutile a qualcosa, è una parola che non viene circoscritta e ci è sembrato interessante investigarla attraverso le voci più diverse. Un’indagine che è partita da una nostra esigenza, ma ci siamo resi conto essere una sensazione comune”.

Il teatro come strumento di indagine? In che modo?

Giacomo:  “Non vorremmo vivere le limitazioni come un impedimento quindi stiamo cercando una modalità che non sia un piano B, ma che provi a mantenere gli aspetti di relazione che il teatro ci può offrire. In questo momento stiamo conducendo una fase preliminare di interviste in cui stiamo parlando con i diversi abitanti del quartiere San Donato per conoscersi e per intraprendere un percorso di conoscenza più approfondito con le persone che si rivelano più interessate e disponibili ad investigare con noi questo tema”.

Diana: “Siamo partiti con il passaparola, quindi con persone che conoscevamo, mentre adesso stiamo entrando in contatto con alcune associazioni di San Donato e molte persone sono arrivate anche attraverso i social grazie alla settimana di take over su Così Sarà! La città che vogliamo”.

Perché San Donato?

Diana: “L’abbiamo scelto per la sua ampiezza e per la sua varietà. Più in generale abbiamo deciso di concentrarci sulla periferia perché è un luogo dal quale ci si muove, che è considerato marginale e quindi molto vicino al concetto di inutilità. Mentre il centro raggruppa e richiama le persone, la periferia di solito le vede passare. A noi interessa l’inutile anche come invisibile, come dimenticato, come messo da parte perché non serve. Un concetto vicino alle persone, agli oggetti e anche ai luoghi. Vorremmo che questa presenza dell’inutile fosse rivalutata e riprendesse forza, anche in questa situazione, e anche per quel che riguarda i luoghi. A maggior ragione in un momento in cui non ci possiamo spostare, anche i luoghi che non sono centrali devono riacquisire la loro importanza per quello che sono”.

Giacomo: “I luoghi periferici offrono spazi di vuoto che ci sembra interessante andare ad indagare. San Donato è un quartiere molto grande e tra questi pieni e vuoti ci offre anche una grande varietà. Nella nostra indagine vogliamo comprendere un bacino di abitanti più vario possibile”.

Quale la restituzione fino ad ora? Cosa vi hanno risposto le persone nelle interviste?

Giacomo: “Risposte varie e anche contradditorie. La nostra intervista procede per domande ma è anche molto flessibile. Per alcuni l’inutilità è un concetto da demonizzare perché dannoso e provoca una sensazione deleteria, mentre per altri è l’opposto e proprio i  momenti della giornata senza alcuna utilità sono quelli che sollevano l’umore”.

Diana: “Alcuni si sono guardati intorno e non hanno trovato niente di inutile, nemmeno la coda alle Poste perché gli ha dato la possibilità di chiacchierare con le persone davanti e dietro. Indubbiamente è un concetto estremamente relativo e individuale”.

foto di Margherita Caprilli per Fondazione Innovazione Urbana

Chiuderete con una parata…ci anticipate qualcosa?

Diana: “C’è un grande dubbio chiaramente legato alla situazione del Covid ma la nostra idea sarebbe quella di recarci fisicamente nel quartiere e trovare il modo di restituire questa parata anche a coloro che sono stati intervistati. Poi i dettagli li metteremo a punto più avanti”.

Voi vi siete mai sentiti inutili?

Diana: “Si, direi parecchio. Dipende molto dal contesto e dalla situazione. Come mi disse un intervistato: in questo momento un martello mi è completamente inutile. Se prendiamo una persona e la mettiamo in un contesto che non è il suo o nel quale non ha possibilità di agire è abbastanza inevitabile sentirsi inutili e questo capita in continuazione”.

Giacomo: “L’anno scorso stavo finendo il percorso in Accademia, poi è arrivato il Covid. Mi sono detto: io mi sono chiuso per tre anni per imparare un mestiere. E se poi finita la pandemia questo mestiere non esisterà più? Improvvisamente quel mestiere ha avuto un fascino di antiquariato”.

Come lavorate e lavorerete insieme a kepler 452  per rendere la vostra idea un progetto concreto?

Giacomo: “È preziosissimo avere Kepler 452 come tutor e visto che è un progetto di teatro partecipato avvalerci della loro esperienza per noi è molto importante. Ora ci stiamo sentendo su Zoom e ci seguono tappa dopo tappa nella realizzazione del progetto”.

Diana: “Ci fanno tante domande, noi cerchiamo di capire come possiamo rispondere e loro ci fanno altre domande. Stiamo tracciando il sentiero insieme”.

Cosa avete visto di positivo e cosa invece sarebbe da migliorare del quartiere che state indagando?

Giacomo: “Mi hanno parlato tutti della bella atmosfera che si respira quando si arriva in San Donato. Ben due intervistati fanno parte dell’orto partecipato del quartiere, mi hanno raccontato che stanno continuando ad andarci e che è l’occasione per un raro momento di incontro tra gli abitanti. Durante le interviste chiediamo sempre anche se c’è un luogo inutile in città e parecchi hanno nominato via San Donato perché ci sono molte case abbandonate, luoghi inutili quindi abbastanza emblematici”.

Nicola Borghesi, perché questa scelta e qual è il suo valore?

“Perché il progetto è bello e perché mi pare non abbia l’ambizione di dimostrare una tesi, ma piuttosto di attivare una dialettica che, già dal titolo, invita a farsi delle domande. Fa proprio l’operazione che deve fare l’arte: non sostenere una tesi ma creare intorno ad una tesi un campo di forze, di ragionamenti e di libere associazioni. Non indica strade, per quello esiste la Politica. Noi artisti per fortuna non abbiamo questo onere. Credo che se un’Istituzione investe su artisti non sia per avere soluzioni ma per porsi domande sempre di miglior caratura sulla città che hanno davanti. Più queste associazioni sono libere, più si può avere un immaginario grande e meglio si può ragionare sui problemi e guardarli un po’ da lontano. Ragionare sull’inutilità e giocare sui limiti di questa parola penso possa aprire a prospettive che non ci si aspetta e intervenire in uno spazio che non è appunto prescrittivo, ma in ascolto”.

Come li state affiancando?

“Stiamo cercando di attivare una conversazione. Diamo consigli ma soprattutto fungiamo da sparring partner. Facciamo domande. Gli artisti, se sono bravi, all’inizio del loro percorso non sanno niente. Vorremmo attivare un percorso maieutico e tirare fuori da loro quello che già hanno dentro, influenzandoli il meno possibile”.

Fate quello che fa uno psicoterapeuta?

“Credo che il lavoro del regista e dello psicanalista abbiano molti punti in comune. È sbagliato pensare che l’attore sia una specie di marionetta che il regista gestisce. Quello che invece deve fare il regista è ispirare l’attore, dargli degli immaginari, far sì che si faccia delle domande, che è quello che fa la psicanalisi. Non dà soluzioni. A volte ci vogliono dieci anni ma se ti fai le domande giuste ad un certo punto produrrai qualcosa che susciterà questa riflessione: interessante questa domanda, è bene che me la faccia anche io. E allora magari si esce dal quartiere San Donato con una domanda che prima non ci si era fatti e guardando le cose con altri occhi”.

Cosa vedete di voi, in loro?

“Che sono disperati, anche se fanno finta di non esserlo. Ed è l’unica qualità di cui c’è bisogno davvero. E poi sono appena usciti da scuola e si fanno le stesse domande che ci facevamo noi ma soprattutto hanno la stessa voglia di cercare le risposte nella realtà”.

Come sarà la città del domani, dopo questo progetto?

“Una città che si fa più domande. E migliori”.

Intervista di Silvia Santachiara