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Scuola di Azioni Collettive

Scuola di Azioni Collettive, la formazione pubblica. Intervista a Isabella Borrelli

La formazione pubblica della Scuola di Azioni COLLETTIVE  è partita. Il secondo appuntamento Campagne di comunicazione dal basso, della docente Isabella Borrelli, è in programma martedì 15 giugno dalle 15 alle 17 al Centro Sociale Giorgio Costa (via Azzo Gardino 44)

Per partecipare è necessario iscriversi compilando questo modulo.

Esperta in strategie di comunicazione digitale, istituzionale e politica. Attivista femminista e LGBT+, studiosa di Gender Politics all’Università Luiss ed esperta in attivazione di campagne dal basso e di opinione per grandi ONG, istituzioni pubbliche e aziende.

Abbiamo raggiunto Isabella Borrelli per farle qualche domanda in vista dell’incontro.

Che cos’è una campagna di comunicazione dal basso e come può essere utile alle organizzazioni?

La grassroots advocacy si occupa di creare movimento d’opinione e di trasformare le persone in ambasciatori di un valore, di un progetto o di un’istanza.

Il concetto che sta alla base di questo strumento è legato al nostro punto di vista all’interno di un dibattito, perché esso serve ed è importante per coagulare un’azione. Uno dei principali problemi che si può riscontrare – non solo nelle associazioni ma anche nelle grandi organizzazioni – è quello legato alla difficoltà nell’attivazione offline nelle persone, anche se alla base del processo è presente un’ottima modalità di divulgazione o informazione.

La grassroots advocacy è uno strumento, quindi, per fare informazione e divulgazione e per porre il proprio punto di vista all’interno di un dibattito, per aiutare le persone ad agire insieme per quel cambiamento che sentono o di creare un dibattito specifico qualora questo non sia stato ancora aperto.

Nelle associazioni o nelle organizzazioni questo obiettivo può essere perseguito tramite diversi strumenti, tra cui le petizioni, l’organizzazione di una manifestazione, l’individuazione di un hashtag che abbia un seguito. Il fine ultimo può essere quello di influenzare altre persone sia a livello orizzontale che verticale.

Cercando di trovare una traduzione nella lingua italiana di grassroots advocacy, mi ritroverei nella definizione di persone che mobilitano le persone, perché il termine mobilitare rappresenta sia una spinta autonoma delle persone ma anche un po’ indotta. Questo aspetto è molto emblematico perché identifica un processo orizzontale in cui si lavora insieme per quello in cui si crede al fine di perseguire uno stesso obiettivo.

Quali sono i principali strumenti che una comunità, un collettivo, un’associazione o un altro soggetto del terzo settore può utilizzare per promuovere la propria idea? Di fronte al silenzio dei media di fronte alle tante progettualità di gruppi di cittadini, comitati, associazioni, come far emergere un lavoro sedimentato nel corso del tempo e mai adeguatamente valorizzato da un punto di vista comunicativo?

I social media hanno rivoluzionato il campo dell’advocacy, tanto che ne è nata una nuova forma: la practical advocacy, ovvero l’advocacy attraverso i feed dei canali social.

Negli ultimi anni l’utilizzo dei social media è cambiato notevolmente, passando ad un livello più consapevole, soprattutto nel voler comunicare i nostri valori e opinioni. Questi fattori hanno incredibilmente cambiato il terreno dell’advocacy che non può esser visto semplicemente come un obiettivo finale, ma deve rappresentare le strategie integrate in cui i social media hanno un ruolo fondamentale e primario.

Le persone hanno cambiato il loro atteggiamento nei confronti dei social: non è solo un modo per divertirsi e svagarsi, ma rappresenta, in molti casi, la loro prima fonte di informazione. Questo aspetto può essere sì pericoloso, ma ci persuade dall’importanza di presidiare questi luoghi e ci fa capire quanto sia importante nel suo piccolo – e non solo – fare mobilitazione attraverso i canali social.

La maggior parte del dibattito come società, oggi, avviene sui canali social, perché i media tradizionali non hanno mai dato spazio ad alcune minoranze. Proprio per questo molti di quei personaggi che oggi consideriamo influenti sui social media fanno parte di questa parte di popolazione: ciò rappresenta un simbolo molto positivo di come i social media abbiano offerto una piattaforma ed un mezzo per propagare la voce a chi tradizionalmente e storicamente non ha mai avuto la possibilità di farsi sentire.

Qual è l’impatto di una campagna di comunicazione, per soggetti individuali e collettivi che si attivano per promuovere diritti economici, sociali e civili? è fondamentale al fine di una campagna efficace che siano soggetti formalizzati o il successo è determinato da altri fattori?

Lottare e costruire insieme in maniera positiva qualcosa in cui si crede crea un incredibile effetto moltiplicatore. Durante le campagne di advocacy, infatti, ci si trova spalla a spalla a gestire situazioni anche dolorose: ciò permette anche di stringere e consolidare legami forti l’uno con gli altri. Il metodo rappresenta un modo di affrontare insieme e mai da soli condizioni complesse, dove si deve analizzare le questioni da diversi punti di vista, di lasciarsi contaminare dagli altri e di fare qualcosa che spesso noi dimentichiamo: l’agire insieme, ognuno con le proprie competenze o con la possibilità di impararne di nuove.

L’aspetto che più preferisco delle campagne di advocacy è il fatto che siano magmatiche, hanno a che fare con le emozioni e con gli ideali delle persone. Io auguro a tutti di lavorare per qualcosa in cui credono, di mobilitarsi e agire per ciò che non li colpisce personalmente ma che tocca altri, perché penso che le vere battaglie dei diritti sono quelle che si fanno per i diritti degli altri. Purtroppo noi, attualmente, siamo molto ripiegati sulla nostra dimensione individuale e abbiamo perso la visione collettiva.

Hai consigli per chi si appresta a progettare una campagna di comunicazione su idee, progetti o istanze che vengono percepite come conflittuali rispetto all’assetto sociale attuale?

Seguendo il mio approccio, l’azione advocacy è più efficace per chi parte da posizioni conflittuali e radicali.

Questo accade perché quando qualcuno ha un’ideale ha anche un’idea molto precisa e per questo è molto più efficace nel comunicare la sua concezione di cambiamento. Scendere a patti sulle proprie azioni e valori non è efficace, anzi, penso che sia controproducente volere per forza parlare a tutti. E’ necessario parlare con onestà, trasparenza e radicalità alle persone che ci vorranno ascoltare, questo perchè solo il bene può essere radicale, mentre il male può essere solo estremo.

Io incoraggio tutte le persone a portare avanti campagne radicali, anzi, campagne con radici profonde, come direbbe Hannah Arendt. Questo genere di campagne sono quelle più efficaci perché sono reali, vere, che vanno oltre i mezzi e strumenti a disposizione. Nella storia del campaigning notiamo, infatti, che quelle di maggiore successo molto radicali, richiedevano obiettivi molto specifici ed erano incredibilmente circoscritte.

Noi vogliamo credere nelle grandi narrazioni, nell’essere radicali, nel non avere paura nello spiegare il nostro punto di vista e, infine, nell’avere fiducia negli altri. La grassroots advocacy, la mobilitazione dal basso, mi ha insegnato ad avere fiducia nelle persone con cui parlo. Non possiamo, infatti, chiedere a qualcuno di intraprendere un percorso insieme e pensare che non ci vorrà capire o ascoltare perchè, poi, siamo proprio noi a riproiettare queste emozioni negative negli altri. Le emozioni hanno questo potere magico, se noi partiamo dalle nostre strategie di comunicazione colmi di questi pregiudizi e già convinti di essere sfiduciati, stiamo creando una potentissima profezia auto avverante. Se io non pensassi in maniera sicura di poter intraprendere qualsiasi percorso insieme, perché tu non dovresti credere in me?