“C’è una tale confusione tra la percezione della propria identità e la sua espressione nel mondo lavorativo che ci sembrava interessante fare un analisi dall’interno, con le persone che stanno vivendo questo passaggio in uno dei momenti più delicati del proprio percorso esistenziale”.
La voce è rassicurante, nonostante il tema non lo sia affatto.
Andrea Mochi Sismondi, attore, scrittore e direttore artistico di Ateliersi, sta guidando una squadra di 12 studentesse e studenti provenienti dal Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna in un vero e proprio progetto di indagine documentaristico-artistica partecipata. È uno dei due percorsi del progetto Previsioni, ideato e curato da Ateliersi.
La domanda da cui sono partiti è scomoda, ma tremendamente utile: Come ti vedi professionalmente tra 5, 10 e 15 anni? L’obiettivo è quello di mettere a fuoco la propria immagine lavorativa nel domani attraverso processi creativi propri del teatro e delle performing arts. E dopo aver svolto l’analisi al loro interno il gruppo percorrerà il quartiere universitario per portare all’esterno domande, dubbi, riflessioni, desideri, paure. Il progetto culminerà con un’installazione artistica dei materiali raccolti, che sarà condivisa durante l’opening dell’Atelier Sì il 30 settembre 2023.
Gli chiedo di riavvolgere il nastro a quindici anni fa.
“Andrea, tu cosa avresti risposto?”. Sorride. “Mi sarei visto in viaggio, scrivendo. E il percorso che ho fatto mi ha portato molto vicino a questo”.
Trovare un equilibrio tra desideri, aspirazioni individuali, contesto sociale e lavorativo non è semplice. Gli domando perché sia così importante, oggi, indagare il tema dell’auto immaginazione di se stessi nel futuro da un punto di vista professionale.
La risposta arriva diretta: “Il lavoro contemporaneo sta cambiando, la sua rappresentazione sta cambiando, ma anche il ruolo che il lavoro ricopre nella vita di ognuna e ognuno di noi è interessato da forti mutazioni che necessitano elaborazioni collettive”.
Cosa volete indagare attraverso questo progetto?
Il progetto indaga quella zona fortemente qualitativa ed emotiva dell’idea di se stessi nel futuro ed è orientato ad un gruppo di ragazzi e ragazze che vanno dai 20 ai 28 anni. Il punto di vista che ci interessa è quello del rapporto tra l’identità e il ruolo lavorativo, quindi l’auto percezione, l’auto narrazione, la legittimità ad aspirare ad uno sviluppo di sè in armonia con i propri desideri e con la propria idea di felicità e come questi entrano in armonia o in frizione rispetto ai ruoli che si ricoprono nel contesto sociale da un punto di vista professionale. Questo ci porta ad indagare il lavoro contemporaneo e la sua rappresentazione, ma anche come sta cambiando il lavoro e il suo ruolo nella vita, intesa sia come esperienza intima che come campo di espressione nella comunità.
Come è strutturato il laboratorio e quale il metodo di indagine e documentazione?
Abbiamo creato un gruppo di ricerca di 12 ragazzi e ragazze che frequentano il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, in particolare impegnati nel settore scientifico disciplinare di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e frequentanti il corso di Sociologia dei Pubblici della Prof.ssa Roberta Paltrinieri e il Laboratorio Multimediale e Audiovisivo della Prof.ssa Giulia Allegrini. Ma anche ex-studenti diplomati al corso di alta formazione UniBO “Innovatori culturali: processi, pratiche e metodi”.
Insieme hanno iniziato a fare ricerca al loro interno, indagando gli aspetti più soggettivi e di relazione tra la propria visione e il mondo del lavoro. Siamo partiti portandoli ad immaginarsi tra 5, 10 e 15 anni e abbiamo chiesto loro di trovare un’immagine che rappresenti il lavoro contemporaneo, di descriverla e di raccontare che sentimenti gli provoca. Adesso il campo di ricerca sta uscendo nella zona universitaria e si sta ampliando anche attraverso la rete di conoscenze dei partecipanti. I ragazzi stanno individuando la domanda di ricerca che gli è più cara e che vogliono portare all’esterno, oltre agli strumenti che vogliono utilizzare. L’obiettivo è arrivare al 30 settembre con un’istallazione collettiva che parta dalle esigenze che i partecipanti sentono più urgenti, rifratte attraverso la “human network” che la ricerca ha attraversato.
Perché pensate sia così importante e quali sono i macro temi su cui state lavorando?
Dal punto di vista dell’analisi del contesto, una ricerca condivisa di questo genere ci sembra importante perché intercetta attraverso una molteplicità di sguardi una grande trasformazione in atto. Il concetto di educazione professionale e di percorso professionale lineare è in crisi, così come è in crisi l’idea di un’auto percezione solida e di un’auto realizzazione stabile attraverso il lavoro. Si pensi ad esempio al fenomeno delle grandi dimissioni o delle narrazioni tossiche, come la storia di chi percorre Napoli-Milano in giornata per guadagnare 1200 euro al mese. C’è una grande mobilità di immaginari legati al lavoro, una grande differenziazione di punti vista rispetto all’affermazione professionale, sempre che abbia ancora senso parlare di affermazione professionale. Per noi in Ateliersi la legittimazione dei propri desideri, di una propria manifestazione nel mondo che sia coerente con i propri principi, urgenze, visioni etiche e politiche, è centrale.
Un desiderio e una paura che avete riscontrato come più forti?
Mi ha colpito molto la paura diffusa dello stigma, da diversi punti di vista. Alcune facoltà, come quelle umanistiche, sono ancora soggette a discredito e sentono ancora il peso del giudizio. E poi la paura del dopo, la difficoltà nel costruire il proprio percorso e nel trovare un lavoro chiaro. Le studentesse e gli studenti sentono il peso della domanda: cosa farai dopo? Alla domanda si associa una sensazione di precarietà e di insicurezza. Un desiderio emerso con forza è quello di dimostrare che i percorsi culturali sono il lavoro del futuro, che il lavoro culturale venga riconosciuto, nobilitato e visto come una leva per un cambiamento, per un modello lavorativo più umano e meno competitivo.
Quali sono invece le domande che sono emerse e a cui cercate risposte?
Penso ad alcune che mi hanno colpito particolarmente: perché non ci si ribella alle ingiustizie, se sia più sensato fare un percorso più vicino alle proprie inclinazioni o maggiormente determinato su altri parametri, cosa è lavoro e cosa non è lavoro, se il lavoro di uno schiavo è lavoro, se il lato di auto-storytelling è lavoro, se il lavoro non pagato è lavoro, come ci presenterebbe ad un datore di lavoro, se ci sono lavori con più valore di altri, ma anche quanto siamo o saremo sostituibili.
In che modo i processi creativi propri del teatro e delle performing arts sono importanti per entrare in contatto con se stessi e con un mondo così complesso da esplorare?
Noi utilizziamo spesso l’intervista come forma base della creazione drammaturgica, mentre la creazione di un contesto empatico e di lavoro collettivo passa successivamente da momenti di dislocazione dello spazio, attraversato da musiche, immagini e video. In questo percorso in particolare introduciamo ogni incontro con una parte video totalmente emotiva, spostando il discorso da un punto di vista teorico ad uno emozionale. Facciamo un lavoro di immedesimazione, giochiamo a fare i ricercatori ma al tempo stesso siamo anche i materiali di ricerca. Sono tutte forme di costruzione di processi empatici che fanno parte della creazione teatrale. È un crinale su cui stiamo lavorando, ci vuole niente a spostarsi sul terreno dalla teoria, che però è un altro lavoro, anch’esso interessante, ma complementare.
Indagine, documentazione, ma anche elaborazione artistica. Come sono tenute insieme queste parti e in cosa culminerà?
Potrebbero essere un video o un allestimento performativo in cui i ragazzi e le ragazze avranno un ruolo attivo. Stiamo collezionando anche immagini fisse e testi. In questo momento i materiali sono in emersione.
Accanto ad Andrea Mochi Sismondi c’è Cecilia Depau, laureata in informazione, culture e organizzazione dei media (Incom) presso l’Università degli studi di Bologna. Fa parte della squadra di 12 ragazzi e ragazze che sta partecipando al progetto. “La questione del lavoro ci riguarda tutti e per noi giovani è effettivamente un problema perché ci troviamo spesso senza risposte”, spiega. E tra le incertezze sul domani, una certezza è forte: “Vorrei fare progetti per la città di Bologna”.
Qual è la domanda che ti fai più spesso?
Quali sono i passi da fare? Dagli incontri emerge questo senso di precarietà, non sappiamo bene cosa ci aspetta, sappiamo solo che abbiamo fatto una scelta. Il sentimento generale è quello dell’incertezza del dopo, perché siamo consapevoli che non sarà semplice trovare un lavoro chiaro e immediato e sappiamo bene che dovremo muoverci a piccoli passi, fare rete, magari spostarci.
Come ti immagini tra 20 anni?
Mi immagino qui, a Bologna, lavorando per la mia città. Sono una di quelle persone che non si sono ancora stancate di Bologna
Quanto si sta rivelando utile questo laboratorio?
Il primo giorno ero un pò spaventata, poi mi sono resa conto di aver parlato tanto, molto più di quello che mi sarei aspettata. Mi sono trovata a dire la mia opinione, a rendermi conto che alcuni pensieri erano condivisi, che altri erano in grado di innescare riflessioni interessanti. L’ho trovato molto stimolante. Avere un contesto protetto e paritario in cui poter parlare di questi temi è una bella possibilità
Cosa ti ha colpito di più delle risposte dei tuoi compagni?
Quando durante gli incontri ci hanno chiesto di scegliere un’immagine sul lavoro contemporaneo, io ho scelto quella della nave Ocean Viking. Ne è nata una bella discussione e l’osservazione che mi ha colpito maggiormente è stata che quell’immagine rappresentava volontari che lavoravano ma anche persone arrivate qui in cerca di lavoro. Una riflessione che inizialmente non avevo fatto e che è emersa dal confronto.
Qual è l’aspetto più complesso di questo lavoro?
Sicuramente trovare la propria domanda di ricerca è un aspetto complesso del progetto ma lo è anche quello di portarla in un contesto non protetto. Non è sempre semplice far aprire le persone, possono esserci reazioni di difesa. Stiamo valutando l’idea di un corner in cui poter far lasciare i propri pensieri, oppure partire da persone che conosciamo o cogliere al meglio le opportunità di incontro offerte dalle giornate di mobilitazione. Tutto il percorso sarà definito dal gruppo nei prossimi passaggi.
Cosa porterai a casa da questa esperienza?
Una visione speranzosa per il futuro. Nonostante si siano toccati temi complessi, sono uscita dagli incontri con una sensazione positiva. Le cose possono cambiare quando si investe in qualcosa e ci si mette del proprio, quando si parla e si entra in relazione con gli altri. È un primo passo verso una società migliore.
Intervista di Silvia Santachiara