L’attività quotidiana delle Cucine Popolari, dall’inizio della pandemia, si è profondamente trasformata. Il numero di persone che cerca un piatto caldo è raddoppiata, portando le Cucine a preparare circa 500 pasti al giorno. Insieme alle richieste, è cresciuto anche il numero di volontari, che ha raggiunto quota 250. Di questi, il 70 per cento un anno fa non c’era. La macchina organizzativa, improvvisamente, è stata da riorganizzare completamente e un’attenzione particolare è andata proprio ai volontari, una risorsa fondamentale e straordinaria, e quindi all’esigenza di investire in una formazione ad hoc. Nasce così il progetto “Ascoltare il territorio. Per un osservatorio sulle povertà” di Civibo all’interno della Scuola di Azioni Collettive.
Inizialmente erano due gli obiettivi: formare i nuovi volontari e incardinare l’archivio dati sull’utenza di Cucine popolari con quello del Servizio sociale adulti del Comune, per poter comprendere prima e meglio i cambiamenti sociali intercorsi nel panorama cittadino della povertà. Considerate le complessità, ci si è quindi concentrati sulla proposta di una articolata offerta formativa rivolta alle diverse tipologie di volontari, con l’obiettivo di attrezzare adeguatamente il loro lavoro e, al tempo stesso, di ridefinire identità e prospettive di Cucine popolari in questa delicata fase di cambiamento.
Il progetto, sostenuto da risorse europee del settore Cultura del Comune, è coordinato da Fondazione Per l’Innovazione Urbana che ha organizzato uno degli incontri di formazione chiamato “Design dei processi con lo strumento della retrospettiva”: un workshop tenuto da Daniele Bucci del gruppo di ricerca HER: She Loves Data, in cui cercare di comprendere collettivamente il sentire delle altre persone, creare uno luogo di riflessione collettivo che sia uno “spazio sicuro” dove risolvere tematiche irrisolte e stilare una priorità di azioni da svolgere.
Abbiamo incontrato Paola Marani, vicepresidente di Civibo, e Sandra Soster, Carmela Grezzi, Roberta Maroni curatrici del progetto per l’Associazione.
Le Cucine Popolari sono una realtà unica. Questo significa avere una grande forza ma anche gestire una complessità notevole. Cosa è cambiato dall’inizio della pandemia e come vi siete riorganizzati?
“Abbiamo ‘retto’ l’aumento impetuoso dell’utenza con una profonda riorganizzazione del lavoro, anche su due turni nella Cucina più grande del Battiferro. Abbiamo lanciato un appello pubblico assieme al movimento delle Sardine per disporre di giovani volontari – con il lockdown agli over 65 era vivamente sconsigliato uscire di casa-, a cui hanno risposto centinaia di persone che si sono messe a disposizione. Uno sforzo straordinario di donatori vecchi e nuovi, dalle grandi aziende al singolo pensionato, che ci hanno messo a disposizione fondi, presidi sanitari e derrate alimentari per far fronte a spese enormemente cresciute. E c’è stato il contributo per la prima volta di Regione e Comune. Ma il prezzo pagato è stato il cibo da asporto e quindi la sospensione del progetto originario, che vedeva nel condividere un buon cibo un momento importante di socializzazione per persone fragili e non, di rimescolamento di ambienti sociali di norma non comunicanti, di costruzione di comunità”.
Quali sono le più grandi difficoltà, oggi?
“Ritornare a numeri di utenti compatibili con il progetto originario, e quindi con la possibilità di ritornare ai pasti in sala. Questo significherebbe anche che le persone, e soprattutto le famiglie, che oggi ancora sono ancora costrette a rivolgersi a noi stanno uscendo dal tunnel del bisogno in cui il covid le ha precipitate. C’è stata anche l’interruzione di un processo molto promettente di inserimento sociale degli ospiti in iniziative promosse da soggetti diversi delle Cucine Popolari: iniziative di diverso stampo e dimensione, come pranzi e cene sospesi, partecipazione a spettacoli, a eventi sportivi e culturali, ecc. Altro punto critico determinato dal grande aumento dei pasti è la parte logistica, quindi la necessità ad esempio di spazi adeguati e attrezzati dove immagazzinare le derrate da distribuire alle varie cucine”.
Parliamo dell’utenza, che non è solo raddoppiata. Chi arriva oggi alle Cucine Popolari?
“Sono arrivate famiglie sconosciute ai Servizi perché con padre e madre al lavoro conducevano una vita dignitosa, ma con la perdita del lavoro e senza poter contare su aiuti forti delle famiglie di origine si sono ritrovate senza più niente e a rischio di perdere anche la casa. Sono arrivate persone finite sulla strada per la perdita del lavoro, specialmente migranti che con il lavoro hanno magari anche perso il permesso di soggiorno. Persone che sono arrivate da noi perché ci conoscevano e che noi abbiamo messo in comunicazione con i Servizi, perché la città nel suo insieme potesse farsene carico. Per fortuna molte situazioni di crisi sono state oggi superate, ma siamo ancora ben lontani dai livelli di partenza e c’è ancora molta insicurezza”.
L’aumento dell’utenza ha portato anche una nuova leva di volontari e avete subito posto l’attenzione sulla necessità di una formazione dedicata. Chi sono i volontari delle Cucine Popolari e perché è così importante la formazione?
“Gran parte della ‘vecchia guardia’ che ha costruito Cucine Popolari non è più tornata dopo il lockdown o tiene una posizione più defilata. Tra i volontari attuali , dopo due anni di pandemia, c’è di nuovo una prevalenza di pensionati, naturalmente, ma i giovani che hanno potuto ritagliarsi uno spazio per dare un contributo lo hanno fatto e lo fanno. Chi regge oggi sulle spalle il peso della gestione di Cucine Popolari è stato buttato nel lavoro in una situazione estrema con grande generosità, ma senza essere preparato a questo e senza figure professionali di riferimento. Ricordiamo che Civibo non ha nessun lavoratore dipendente, siamo tutti solo volontari. Alcuni si sono per questo “bruciati” ed è un costo che non possiamo permetterci. La maggior parte di loro inoltre non ha conosciuto la realtà precedente la pandemia di Cucine Popolari e pensa che siamo in realtà una specie di Caritas laica: diamo da mangiare a chi ne ha bisogno. Abbiamo bisogno come Associazione della loro testa e del loro entusiasmo per reinventarci”.
Quali i temi che saranno affrontati in questi incontri?
“Abbiamo pensato ad un’offerta differenziata. Oltre ai corsi obbligatori per chi lavora in cucina sul tema della sicurezza alimentare, per i più nuovi volontari ci saranno anche corsi dedicati all’accoglienza e una sessione con uno psicologo sociale sui temi dell’ascolto attivo, della gestione della rabbia e delle emozioni in genere, per non sentirsi feriti nell’impatto con ospiti fragili e che hanno spesso molte ragioni per essere esasperati. Ci saranno inoltre per tutti un incontro con funzionari e dirigenti del Comune per mappare i servizi pubblici le iniziative del privato sociale rivolte agli adulti in condizioni di difficoltà della città di Bologna e altri incontri, divisi per i quattro quartieri in cui oggi operano le Cucine popolari, con il Servizio sociale per la mappa delle risorse offerte dal territorio. In collaborazione con la FIU abbiamo inoltre ritenuto di dover lavorare con il gruppo dirigente dell’Associazione per migliorarne la capacità di ripensarsi, di superare lo spontaneismo iniziale senza perderne lo slancio, di decidere e di gestire eventuali conflittualità. Infine la parte forse più impegnativa e dalla quale ci aspettiamo di più: un percorso di counseling per chi fa il volontario da almeno un anno nel corso del quale rielaborare l’esperienza sin qui condotta, ritrovare le radici del progetto di Cucine popolari e immaginarne il futuro. Abbiamo imparato proprio nel corso che abbiamo seguito organizzato dalla Scuola di Azioni Collettive che solo lavorando su se stessi, formandosi insieme e verificando assieme la direzione di marcia è possibile aggiornare gli obiettivi e ridefinire il profilo identitario dell’Associazione. Bisogna a volte poter alzare la testa dal lavoro quotidiano per poter vedere insieme il futuro”.
La Scuola di Azioni Collettive vi sta accompagnando nel percorso e ha organizzato un incontro sulla retrospettiva. Cosa è emerso e in che modo questo strumento può esservi utile per il proseguimento del progetto?
“Abbiamo scoperto l’utilità del metodo della ‘retrospettiva’ che ignoravamo completamente. In una fase convulsa di trasformazione e di crescita dell’attività ‘potare’ gli aspetti ininfluenti e recuperare appieno le radici forti del progetto e del lavoro comune è la condizione per poter andare avanti. Ed è fondamentale la presenza di figure professionali esterne all’organizzazione, dunque neutre, in cui potersi specchiare. Un primo step per il gruppo dirigente di Cucine popolari, e altri ne dovranno seguire condotti in autonomia, ma contiamo sull’apporto di Collettive per un possibile follow-up dei passi compiuti perché non abbiamo all’interno professionisti dipendenti e siamo tutti volontari a testa bassa nel lavoro quotidiano. Ringraziamo ancora per l’aiuto che abbiamo ricevuto e che contiamo di poter ancora ricevere”.
Intervista di Silvia Santachiara per Fondazione Innovazione Urbana