“Credo che una caratteristica di questo progetto sia stata quella di non aver ridotto il dibattito al “che cos’è la scuola oggi”, ma di aver immaginato “che cosa può fare la scuola rispetto alla città” e “che cosa possiamo fare noi rispetto alla scuola”.
La scuola che sarà è il Percorso per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO) che la Fondazione Innovazione Urbana e Archilabò hanno svolto con circa sessanta ragazzi e ragazze di due scuole superiori di Bologna nell’ambito delle Scuole di Quartiere, progetto promosso dal Comune di Bologna e realizzato dalla Fondazione Innovazione Urbana con l’obiettivo di promuovere l’ascolto e la partecipazione di chi si occupa di educazione e scuola per indirizzare le politiche pubbliche della città.
La scuola che sarà ha messo al centro il concetto di competenza e, attraverso la realizzazione di un progetto concreto, un vero e proprio festival, ha permesso ai ragazzi e alle ragazze di mettere in gioco le loro abilità anche attraverso un dialogo attivo e partecipato con le realtà del territorio bolognese che si occupano di progettazione e intervento culturale. Guidati da mentor ed esperti/e, studenti e studentesse hanno lavorato suddivisi in tre gruppi: curatela artistico-scientifica, produzione e logistica e comunicazione. In parallelo ha preso il via un percorso partecipato con la comunità educante e docente: I mercoledì della scuola che sarà, una rassegna di 4 incontri mensili con un panel di ospiti qualificati per curriculum accademico e professionale in dialogo con la cittadinanza, gli insegnanti e le realtà che sul territorio si occupano a vario titolo di educazione.
Il progetto è culminato con Il festival La scuola che sarà, che si è svolto il 19, 20 e 21 maggio negli spazi di Salaborsa e Salaborsa Lab, e che ha permesso a ragazzi e ragazze di riappropriarsi degli spazi e dei tempi della scuola e di sviluppare competenze, la cui costruzione non sempre trova spazio a scuola.
Abbiamo raggiunto Ana Liza Serra, responsabile comunicazione Archilabò e Irene Giunchi, project manager di Le nuove scuole di quartiere per Fondazione Innovazione Urbana, per farci raccontare qualcosa di più sul percorso.
Ana Liza, il progetto si contraddistingue principalmente per il metodo e per la visione. Qual è, secondo voi, l’aspetto più innovativo e in cosa si differenzia da altre esperienze simili?
“La scuola che sarà ha rappresentato per Archilabò, fin da subito, un progetto ambizioso e una sfida: non si trattava solo di lavorare sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente – sulle quali abbiamo condotto una ricerca approfondita in fase preparatoria del percorso – non si trattava solo di organizzare e realizzare un festival – di per sé attività complessa e faticosa – non si è trattava nemmeno solo di riflettere sulla scuola così com’è oggi e di immaginare insieme a studenti e studentesse la scuola che vorrebbero – cercando di mantenere l’equilibrio tra la sfera del desiderio e quella della possibilità, per non banalizzare e svuotare il percorso. Si trattava di fare tutto questo contemporaneamente, guadagnando incontro dopo incontro spazi di fiducia e dialogo; dando forma, concretezza e strumenti alle idee, ai bisogni e alle diverse sensibilità e aspirazioni delle/i partecipanti. Il risultato non era affatto scontato e, soprattutto, rischiava di sbilanciarsi verso uno di questi obiettivi.
L’aspetto che ha contraddistinto il percorso, dal nostro punto di vista, è stato proprio la ricchezza e complessità delle sue fasi, il forte accento sul protagonismo di studentesse e studenti che si trovavano a lavorare su un compito di realtà direttamente connesso ad un impianto teorico forte e, non da meno, la responsabilizzazione rispetto ad un evento che, senza il loro contributo e impegno, non sarebbe andato a buon fine.
Per onestà, però, dobbiamo sottolineare che abbiamo incontrato un gruppo di ragazze e ragazzi straordinario, motivato, collaborativo e proattivo che ha accolto la proposta con maturità ed entusiasmo contribuendo alla costruzione della stessa e creando un clima di scambio che ha arricchito tutte e tutti. Qui forse si annida un altro aspetto caratterizzante e peculiare di La scuola che sarà: un percorso così complesso che mette al centro studenti e studentesse deve necessariamente adattarsi e plasmarsi sul gruppo che incontra in termini di strumenti, metodi, approcci e temi”.
Quali strumenti avete utilizzato e quali i valori su cui si fonda?
“Il percorso è stato strutturato in 12 incontri laboratoriali: i primi due si sono svolti nei rispettivi Istituti e sono gli unici in cui le due classi hanno lavorato separatamente. Durante queste prime ore sono stati presentati il percorso e il festival utilizzando metodologie interattive e digitali (padlet, kahoot, mentimeter): abbiamo chiesto a studentesse e studenti di presentarsi attraverso diversi linguaggi espressivi (immagini, canzoni, video, suoni..) e di riflettere su sé stessi, sulla percezione e consapevolezza di sé e sulla percezione che gli altri hanno di sé.
Gli incontri successivi si sono svolti nei locali di Salaborsa Lab e hanno coinvolto entrambe le classi, alternando attività in plenaria a quelle in piccolo gruppo. Studenti e studentesse si sono suddivisi in tre gruppi in base al tipo di lavoro che desideravano approfondire durante il PCTO: i tre gruppi coincidevano con le tre aree operative che compongono il lavoro di organizzazione di un evento culturale: la curatela scientifico-artistica del programma, la produzione e organizzazione logistica di risorse, spazi e amministrazione, la comunicazione e promozione dell’evento su più canali. Ogni gruppo ha lavorato con obiettivi specifici, guidato da uno o più mentor con competenze nello specifico ambito che avevano il ruolo di guida e facilitazione del processo di emersione delle istanze di studenti e studentesse. Questi ultimi, infatti, sono sempre stati i protagonisti del percorso, godendo di totale potere decisionale sui contenuti del festival e occupandosi direttamente di tutte le questioni in campo, dal budget alle pagine social, passando per la logistica. Strumenti e metodologie usate, dunque, sono stati tanti e diversificati per rispondere di volta in volta a compiti specifici, modalità, conoscenze e competenze delle ragazze e dei ragazzi. Dall’utilizzo di software interattivi alla suite di Drive per la creazione del budget e dei documenti collaborativi, dagli strumenti di grafica per la costruzione della compagna di comunicazione ai tradizionali cartelloni per raccogliere e rappresentare le idee, dal brainstorming collettivo e le assemblee alle attività in piccolissimi gruppi e individuale.
In questa continua tensione tra la visione d’insieme e il lavoro di dettaglio, abbiamo trovato utile ritagliarci, ad ogni incontro, un momento finale di condivisione collettiva, allo scopo di coinvolgere tutte e tutti nelle diverse fasi del percorso, raccogliere opinioni e idee, facilitare la motivazione e il senso di appartenenza al gruppo”.
Un percorso di 4 mesi che ha portato alla realizzazione di un progetto concreto, Il festival La scuola che sarà. Avete coniugato il sapere con il saper fare e il saper essere, uscendo dalla dimensione scolastico-performativa dellǝ studente e portandoli a sviluppare consapevolezza verso le proprie abilità. Quanto è importante portare ragazzi e ragazze a calarsi in un ambiente, in un contesto e lavorare in comunità?
“Uno dei punti forti di La scuola che sarà è stato proprio riuscire a deviare dai binari che solitamente indirizzano gli apprendimenti, l’acquisizione di competenze e in generale molti percorsi scolastici. La necessità di rivedere la dimensione eccessivamente performativa e costantemente legata al tema della valutazione a tutti i costi è stata proprio una delle istanze portate dai ragazzi e dalle ragazze durante il percorso. Siamo molto felici che La scuola che sarà sia stato uno spazio di reale sperimentazione per loro, di messa in pratica dei singoli talenti e di espressione dei loro desideri e interessi. Studenti e studentesse sono stati motivati a portare avanti le attività proposte non tanto in vista di una valutazione finale o di una spinta competitiva, ma dalla necessità di realizzare concretamente il festival, con tutto ciò che comportava. La cooperazione e il lavoro di comunità sono stati indispensabili per arrivare a raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissati, ed è stato bello assistere alla naturalezza con cui studenti e studentesse si sono attivati per far sì che l’azione dei singoli fosse funzionale al lavoro dell’intero gruppo”.
Irene, questo progetto ha permesso ai ragazzi e alle ragazze di avvicinare la scuola ai loro desideri e alle loro inclinazioni, oltre ad essere l’opportunità e lo strumento attraverso cui sviluppare competenze trasversali, che spesso non trovano spazio a scuola. Quali sono, secondo voi, e cosa hanno portato a casa da questa esperienza?
“L’organizzazione di un evento culturale ci ha permesso di lavorare su competenze che raramente fanno parte dell’offerta scolastica. I ragazzi e le ragazze, oltre ad aver definito i temi da trattare al festival, si sono direttamente occupati degli aspetti legati alla produzione, alla curatela e alla comunicazione. Questo ha significato costruire competenze legate all’individuazione e gestione delle risorse, all’organizzazione di un evento, alla definizione di un programma, così come all’ideazione di una strategia comunicativa. Più che sulle competenze acquisite, però, voglio soffermarmi sugli intenti. Per le ragazze e i ragazzi il festival è stato uno strumento con cui raccontare ai/alle docenti e alla città le proprie idee sulla scuola e sul futuro. I ragazzi e le ragazze con cui abbiamo lavorato hanno dimostrato di essere desiderosi di parlare di futuro con i più adulti e i temi che hanno portato hanno creato i presupposti per un vero e proprio apprendimento collettivo. Durante il festival hanno aperto delle porte sul proprio vissuto, creando spazio per noi e facendoci guardare dalla loro prospettiva. La domanda è: gli adulti sono interessati a varcare la soglia?”.
Il progetto ha compreso anche i mercoledì di “La scuola che sarà”, un percorso di quattro appuntamenti che si rivolge a insegnanti, formatori, educatrici/educatori e a tutta la cittadinanza per favorire il confronto e lo scambio su bisogni, sfide ed esperienze. Avete messo al centro l’ascolto e la cura delle relazioni. Cosa è emerso da questi incontri e perchè è fondamentale dare parola a chi, ogni giorno, lavora a stretto contatto con ragazzi e ragazze?
“Esiste un flusso caleidoscopico di idee, proposte, problemi e paure sulla scuola in cui si rischia di perdersi se nell’organizzarlo non si interpella, in prima istanza, chi vive la scuola sulla propria pelle. È questa la convinzione da cui siamo partiti. L’idea, infatti, era realizzare un percorso aperto e partecipato di riflessione e scambio, ponendo al centro la concreta esperienza di chi ogni giorno mette in pratica la scuola attraverso il proprio lavoro. Penso che i Mercoledì siano stati un momento importante di ricerca e condivisione dei propositi, attraverso cui sono stati cercati punti di incontro per comprendersi e ritrovarsi nell’idea di futuro come fatto collettivo. A tale riguardo, un aspetto che potremmo rivedere per le prossime edizioni è proprio quello di intrecciare di più i due percorsi, quello rivolto alle studentesse e agli studenti e quello pensato per la comunità educante, per realizzare un dialogo a più riprese tra le parti, mettendo in condivisione linguaggi, esperienze e prospettive in vista del raggiungimento di un obiettivo comune: la cura della scuola e delle persone che la costituiscono”.
Perché c’era bisogno di un progetto di questo tipo e come dovrebbe essere, secondo voi, la scuola del futuro?
“La scuola è l’istituzione che crea le premesse per il cambiamento di tutte le altre, nel bene e nel male. È talmente centrale nelle nostre vite da essere quotidianamente oggetto di numerose narrazioni che, in base alle circostanze, la dipingono come liberatrice ed emancipatrice oppure come colpevole delle disgrazie di una società spesso descritta come malata. Per come la vedo io, queste narrazioni sono più intente a vivisezionare la scuola che a coglierne la vita; sembrano tenere accesi i riflettori sul tema, ma quello che fanno è ossificare le opinioni e, in alcuni casi, intrappolare la nostra attenzione facendoci perdere di vista la vita di chi ogni giorno attraversa le mura scolastiche, senza mai essere interpellato. Ecco, già questo è un motivo valido per realizzare un progetto come La scuola che sarà. Il percorso, infatti, ha permesso di approfondire spinose questioni di responsabilizzazione e di potere partendo dalla voce e dalle esperienze delle studentesse e degli studenti, delle docenti e degli insegnanti. Come Fondazione Innovazione Urbana abbiamo voluto puntare sull’immaginazione e questo ha fatto sì che un’altra caratteristica di questo progetto sia stata quella di non aver ridotto il dibattito al “che cos’è la scuola oggi”, ma di aver immaginato “che cosa può fare la scuola rispetto alla città” e “che cosa possiamo fare noi rispetto alla scuola”. E’ un progetto fatto di proposte e relazioni, fondato sulla ricerca di punti in comune da cui partire per creare alleanze e immaginare le forme del cambiamento. Quello che si è tentato di promuovere con questo percorso è quello che personalmente desidero per la scuola: la creazione di un contesto di qualità che coltiva l’assunzione della responsabilità collettiva, mettendo persone, strumenti, competenze, conoscenze e spazi a disposizione di chi rappresenta il futuro”.
Intervista di Silvia Santachiara